venerdì 9 dicembre 2011

Operazione Barbarossa. - Stalinismo. - Chris Bellamy: Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale. Einaudi 2010.

 

 

 

 

"...lo stalinismo, questo marxismo degli analfabeti..." (Isaac Deutscher) 

Leggo sempre con interesse i giudizi che i lettori comuni ('comuni' nel senso che, come me, non hanno competenze specifiche) danno, nel sito IBS, Internet bookshop, dei libri che leggono. Accanto a tante valutazioni (per lo più su opere di narrativa) fatte secondo il gusto corrente più superficiale e stereotipato, a volte ci sono giudizi fulminanti per acutezza e concisione. Questo libro di Chris Bellamy mi ha attratto naturalmente per l'argomento, così importante, vasto e poco conosciuto; ma anche perché l'unica opinione espressa in IBS incoraggiava con entusiasmo a leggerlo. Un lettore che si firma Andrea scrive che l'opera, assolutamente indispensabile, anzi una pietra miliare sull'argomento, si legge bene e che “l'autore, a differenza di molti 'antiquari' (direbbe Bloch), che più che libri di storia costruiscono elenchi telefonici, tiene dritta la barra del vero storico”. Cito il giudizio di Andrea non per rinfacciarglielo, ora che ho faticosamente terminato la lettura del libro di Bellamy, ma perché credo che, senza accorgersene, abbia sfiorato la verità. Infatti quest'opera a me sembra proprio un elenco telefonico. Sarà senza dubbio un testo molto utile per chi si occupa di storia militare e degli eserciti; probabilmente è il più esaustivo in circolazione (838 pagine !), ma, secondo me, sarebbe più appropriato considerarlo piuttosto un'opera di consultazione, come per es. Il Morandini (dizionario dei film) o Il Calendario De Agostini, che non di lettura. Do un solo esempio della prosa tecnica insopportabilmente documentata di Bellamy, però avverto che, del suo libro, almeno 700 pagine sono scritte così. “Nel quadro del rimescolamento delle forze di sicurezza interna della capitale, il giorno dopo Michail Žuravlëv, comandante dei reparti del NKVD di Mosca, dispose la formazione di un 'reggimento motorizzato fucilieri distruttori moscovita', che avrebbe messo insieme due 'battaglioni distruttori' creati in precedenza: i 498 e i 462 uomini rispettivamente dei battaglioni regionali Komintern e Krasnogvardejskij avrebbero costituito il 1° e il 2° battaglione del nuovo reggimento; il 3° sarebbe stato composto da poliziotti e altre unità minori del NKVD, mentre il 4°, basato sul battaglione distruttori della regione di Podol'sk, venne formato a dicembre. Nel luglio 1942, il reggimento divenne il 308° fucilieri. I distaccamenti fuori città del NKVD e della polizia furono costituiti come 'battaglioni distruttori' in base a un decreto del 22 ottobre e quel giorno stesso Žuravlëv avanzò una forte richiesta affinché i battaglioni dislocati nelle zone di combattimento passassero sotto il comando dell'Armata Rossa” (pag. 347). Chris Bellamy è uno storico innamorato dei documenti e non vuole lasciarne inutilizzato nemmeno uno. Perciò ci racconta, ad esempio, anche i giorni, l'ora, la durata dei colloqui che Stalin aveva con i suoi collaboratori. La massa delle informazioni che Bellamy ci trasmette è così capillare che alla fine diventa superflua. Voglio dire, cioè, che il suo modo di utilizzare tutti i documenti d'archivio di cui dispone è conforme allo spirito di una storia accademica, continuamente frammentata in mille particolari tecnico-burocratico-amministrativi, ma non aiuta a ben comprendere i fatti che racconta. Il libro di Bellamy è sorprendentemente povero di interpretazioni storico-politiche, e quei pochi giudizi che ogni tanto, in modo piuttosto conciso, ripete, non convincono. Il fatto è, credo, che Bellamy vede lo stalinismo con grande distacco e, direi, con indifferenza morale. Pur non ignorando né i suoi crimini né i suoi errori nella conduzione della guerra, non se ne appassiona, non li sente, vi accenna a volte con una semplice battuta. Per esempio, “per il 24 giugno 1945 fu organizzata la parata della vittoria. Stalin si preparava a ricevere il saluto militare delle truppe che sfilavano, ma la tradizione imponeva che dovesse farlo a cavallo, e lui non era il miglior cavaliere del mondo. I russi trovarono un magnifico stallone arabo. Stalin però non riusciva a padroneggiare il focoso destriero, che può darsi l'abbia disarcionato, cosa molto pericolosa per il dittatore sessantaseienne, nonché, visto il modo in cui trattava la gente riottosa, forse pure per il cavallo” (pag. 769). Si può scherzare così su una delle grandi tragedie del nostro tempo? Roy Medvedev ha scritto di Stalin che “nessuno dei tiranni o dei despoti del passato fu capace di perseguitare o di uccidere un tal numero di suoi compatrioti” (Lo stalinismo, Milano 1977, pag. 310). Altro che gente e cavalli riottosi! Bellamy, con il suo animo amministrativo, prova stima e simpatia per Stalin. Nell'agosto del 1942 Winston Churchill si recò a Mosca. Non sapendo bene cosa avrebbe trovato al suo arrivo nella terra degli operai e contadini la cui condizione era aggravata dalla guerra, si era portato dei panini. Invece trovò una sontuosa cena. “Pur essendo la Russia con le spalle al muro e il cibo per le masse rigidamente razionato, si trattava di generi di lusso che avevano e potevano mettere a disposizione dei tre grandi capi di stato alleati” (pag. 500). Ma tutta la Nomenklatura sovietica, aggiungo io, mangiava molto bene. “Quando Molotov, continua Bellamy, aveva incontrato Churchill in maggio, gli era stato offerto il cibo ordinario inglese del tempo di guerra, assolutamente poco attraente, e un surrogato del caffè ricavato dall'orzo. Al suo racconto, Stalin ridacchiò. 'Un'esibizione di democrazia a poco prezzo, Vjačeslav', fu il commento del dittatore. E Churchill, per giunta, 'non aveva certo messo su quella pancia non mangiando altro che sandwich' ”. Questo sarebbe fine umorismo? A me sembrano volgari battute da osteria. Ma Bellamy è di bocca buona e conclude l'aneddoto così. “Pur con tutte le sue colpe, Stalin aveva un grande senso dell'umorismo 'sempre accompagnato da uno sguardo ammiccante' ” (pag. 501). Lo sguardo ammiccante di Stalin lo conoscevamo già, se non ricordo male, da una pagina di Trockij, che, appunto, sottolineava la volgarità di quegli ammiccamenti. Un altro aneddoto che fa capire l'insensibilità morale di Bellamy e la facilità con cui vengono dati molti suoi giudizi è questo. Stalin ha una discussione con Konstantin Rokossovskij perché i due uomini hanno idee opposte su una iniziativa militare da prendere. Rokossovskij viene mandato un paio di volte fuori della stanza per ripensarci, ma ogni volta torna dicendo di essere sempre convinto di aver ragione. “Stalin dichiarò infine che la vigorosa difesa della sua posizione era 'una buona garanzia di successo' ”, e accettò il piano di Rokossovskij. E Bellamy commenta: “I prepotenti rispettano il coraggio” (pag. 701). Questo io non l'avevo mai sentito dire di Stalin. Avevo letto invece che era sospettoso e diffidente fino alla paranoia e che “era geloso della popolarità dei suoi marescialli, aveva paura di loro” (Isaac Deutscher, Ironie della storia, Longanesi, 1972, pag. 180). Ma ancora più corrivo è il commento con cui Bellamy conclude l'aneddoto. Dell'episodio raccontato, scrive, “si vede anche con chiarezza quanto fosse meditato e franco il dibattito con cui veniva esaminata a fondo la formulazione dei piani di guerra russi” (pag. 702). Robert Conquest la pensava, invece, proprio all'opposto, e nella sua biografia di Stalin riporta il parere del generale Ismay, capo della missione militare britannica: “Quando [Stalin] entrò nella stanza, tutti i russi si immobilizzarono in silenzio, e lo sguardo braccato negli occhi dei generali rivelava con fin troppa chiarezza la paura costante in cui vivevano. Era disgustoso vedere uomini coraggiosi ridotti a un servilismo tanto abietto” (Biblioteca di Repubblica 2005, pag. 372). Accenno soltanto al concetto che mi sembra costituire il criterio interpretativo più importante e più sconcertante di Bellamy. A pag. 467, dopo aver raccontato come la polizia di Leningrado, dopo lunghi e attentissimi controlli, avesse finalmente acciuffato un dissidente, una primula rossa, che scriveva, in forma anonima, lettere e volantini antigovernativi, Bellamy commenta: “La storia offre uno spaccato interessante del sistema di sicurezza sovietico, mostrando come non incarcerasse affatto la gente in modi puramente arbitrari, sulla base di prove inconsistenti, neppure nei momenti più bui del più terribile assedio della storia”. E finalmente, qualche pagina dopo, Bellamy si apre completamente: “Senza lo stretto controllo politico e di sicurezza esercitato dal NKVD e per suo tramite, non sarebbero sopravvissuti né la città di Leningrado né l'intero paese” (pag. 474). Questo concetto viene ripetuto per tutta la seconda metà del libro e ribadito nelle conclusioni. Non importa che Roy Medvedev (per fare un nome che ho sotto mano, ma non è certo il solo), a pag. 303 dell'opera citata sopra, avesse già da lungo tempo scritto che “la NKVD arrestò e uccise nel giro di due anni [1937-38] più comunisti di quanti ne siano periti lungo tutti gli anni della lotta clandestina, di tre rivoluzioni e della guerra civile”. Quando una verità diventa troppo ovvia ed evidente, salta sempre su qualcuno che vuole negarla per sentirsi originale senza fatica e senza sofferenza. Le conclusioni di un libro basato su una documentazione così imponente e capillare sono semplicemente ridicole. Nel ribadire il suo apprezzamento per l'attività svolta dal NKVD, Bellamy loda “il mantenimento delle 'normali' procedure dei tempi di pace, e di un corretto lavoro di polizia per prendere le persone giuste, persino nelle circostanze spaventose dell'assedio di Leningrado”; ma cita solo quell'unico caso della 'primula rossa' leningradese. E poi si rammarica che nell'Iraq di oggi non sia attiva un'organizzazione efficiente come il NKVD. “Le minuziose disposizioni sovietiche riguardo alla 'costruzione statale' e all'imposizione della sicurezza che facevano immediatamente seguito alle conquiste o riconquiste [di territori già occupati dai tedeschi] hanno persino da guadagnare, in termini di efficienza organizzativa, nel confronto con i recenti sforzi in Iraq” (pag. 785). Ma la sorprendente ciliegina su questa torta massiccia fatta con ingredienti così pesanti è proprio in fondo a pag. 786, ultima pagina del testo. “Una recente analisi, scrive Bellamy, riconosceva che 'senza Stalin, non avremmo vinto. Ma se non ci fosse stato Stalin, con ogni probabilità non ci sarebbe stata neppure la guerra' ”. Ma Bellamy non è d'accordo con questa tesi, e spiega perché. “Hitler avrebbe potuto essere altrettanto determinato ad annientare qualunque altro leader o governo della Russia sovietica. Se non lo fosse stato, se Tuchačevskij fosse sopravvissuto rovesciando Stalin e arrivando a qualche accomodamento con Hitler, in tal caso la Germania nazista e l'Unione Sovietica avrebbero magari costituito un fronte unito contro il mondo libero”. Sono ragionamenti da storico, questi? Se proprio dobbiamo prendere in considerazione questa zuppa di 'se', di 'ma' e di 'forse', possiamo allora anche spingerci un po' più lontano e immaginare che, se fra gli anni Venti e i Trenta non ci fosse stato Stalin a guidare il comunismo internazionale, forse Hitler non sarebbe mai arrivato al potere.

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